ALDO ACCARDO : UN BLOGGER ATIPICO!

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Aldo Accardo, è un blogger romano il quale dal 2008 ha deciso di avviare un suo blog personale “Via della Polveriera” che costantemente aggiorna con fatti e notizie inerenti alla sua vita.

Certo che Aldo ne ha proprio tante storie da raccontare  Nasce nel 1930 e da allora fino ad oggi ha vissuto un percorso di vita altalenante, caratterizzato non solo dalle sue molteplici esperienze lavorative e familiari, ma anche dai naturali sviluppi che ha subito la società nel corso di 85 anni.

Vi riportiamo di seguito l’intervista che Aldo gentilmente ci ha rilasciato.


Ciao Aldo, quando e dove sei nato?

Sono nato a Roma il 9 settembre 1930 da genitori entrambi di Castelvetrano (Trapani), emigrati a Roma nel 1928 in viaggio di nozze. Mia madre non ancora diciottenne (orfana di entrambi i genitori e sposata sotto la tutela della sorella maggiore) e mio padre ventottenne.

Che scuole hai frequentato?

Scuole pubbliche fino alla “conquista” della licenza della terza media inferiore inclusa (che ho ripetuto tre volte). Poi non ho voluto più studiare.

Che tipi di mestieri hai intrapreso in gioventù?Apprendista presso una filiale di Società italo-americana che si occupava di riparazione e installazione di macchine calcolatrici. Avevo 14 anni. Dopo qualche mese andai a fare una specie di fattorino su dei piccoli autocarri in sostituzione dei mezzi pubblici che subito dopo l’occupazione di Roma da parte dei tedeschi (luglio 1943-giugno 1944)  non erano in grado di funzionare. In seguito aiuto macchinista al Teatro Galleria sotto la Galleria Colonna di fronte Palazzo Chigi. Poi terzo aiuto elettricista sempre al Teatro Galleria. Ho fatto anche qualche giorno di manovale-cementista. Purtroppo in quegli anni (1944-1948) il lavoro scarseggiava. Sul finire del 1948 riuscii ad essere assunto presso uno studio notarile come dattilografo. Nel 1950 un anno di militare in Piemonte (Casale Monferrato e Asti). Durante tale periodo il Notaio dove lavoravo morì e al mio ritorno venni assunto da suo figlio architetto che mi affidò l’incarico di assistente (contrario) ai lavori di un fabbricato sulla via Cristoforo Colombo da lui progettato e del quale dirigeva i lavori stessi. Nel 1956, dopo sposato, tramite un annuncio su un quotidiano romano venni assunto da un altro Notaio e da allora seguitai la mia “carriera” di dipendente di vari studi notarili, fino ai primi anni novanta. Non sono mai stato un dipendente pubblico. Durante il periodo della mia disoccupazione mi veniva chiesto se avevo fatto il servizio militare, oppure se avevo la patente, oppure ancora se potevo accompagnare la mia richiesta di assunzione presso un’azienda pubblica da una raccomandazione di un monsignore(???). A volte mi guadagnavo le “mille lire” prendendo parte come teatrante amatoriale (presentatore, spalla del comico ecc.) ad alcuni spettacoli teatrali nelle sagre paesane vicino Roma.

Come mai hai deciso di divenire “Blogger”? 

Casualmente dato che da poco tempo adoperavo il computer (per la verità non lo sapevo usare molto bene ed ancora ho difficoltà) e non sapevo che voleva dire “blogger”. Incontrai la figlia di un mio vecchio amico che venne a casa e mi “installò” il blog lasciandomi delle istruzioni (18 dicembre 2008).

Come mai ti fai chiamare “Il Monticiano”?

Perché sono nato a Via della Polveriera, di fronte al Colosseo, che fa parte del Rione I° di Roma, il Monti.

Raccontaci di quando da ragazzo hai deciso di scappare di casa , arrivando fino a Napoli. 

Ero il secondo dei quattro figli maschi dei miei genitori e quella volta toccava a me lavare i piatti (se non ricordo male era il 1945). Non mi andava per niente. Quella è stata la seconda mia fuga da casa,delle tre complessive.

Parlaci dell’indimenticabile estate del 1943. 

Ero appena tredicenne ma sognavo tante cose tra le quali quella di andare al mare. Proprio così , ma tutti dovemmo smettere di andarci. Eppure il mare l’avevamo vicino, ad Ostia, distante circa 27-28 Km, poco più di 30 minuti di treno dalla stazione della ferrovia Roma-Lido vicino Porta S. Paolo, luogo dove si svolse un episodio da ricordare. Quello che appresi fu che i bombardamenti degli anglo-americani avevano distrutto i binari di quella ferrovia, la stazione di Ostia, lo stabilimento balneare Roma e molto altro tanto che, nel timore di uno sbarco del “nemico”, furono costruiti sul litorale degli sbarramenti in cemento armato e disposta l’evacuazione della popolazione civile da quella zona. I bombardamenti a Roma ebbero inizio proprio nel periodo che andava dal luglio del ’43 al 14 agosto dello stesso anno quando Roma fu dichiarata Città aperta. Proseguirono però nei paesi intorno alla città, specialmente ai Castelli Romani. Tre anni di guerra avevano lasciato un brutto segno sugli italiani specialmente su chi viveva, o meglio cercava di sopravvivere, nelle piccole e grandi città. C’era molta insicurezza e insofferenza in giro: fame, paura e povertà regnavano sovrane. Quello era l’anno in cui dovevo ultimare la scuola media inferiore ma quasi per l’intera durata di quel periodo scolastico io e tre miei compagni di classe dei quali ricordo ancora il nome pensammo, male e da incoscienti, di dedicarci ad altro. Non frequentammo più la scuola dove eravamo stati iscritti dato che trascorrevamo il tempo libero rubato agli studi trastullandoci nei luoghi dell’antica Roma sul colle Palatino. Fummo tutti regolarmente bocciati. I bombardamenti a Roma sui quartieri Tiburtino, Prenestino, Casilino, Tuscolano e Nomentano, culminarono il 19 luglio ’43 nel tragico bombardamento del quartiere San Lorenzo dove ci furono migliaia di morti e feriti. Io e la mia famiglia abitavamo nei pressi del Colosseo, rione Monti, e non ricordo di aver sentito fragori di esplosioni probabilmente perché nostra madre ogni volta che suonava la sirena dell’allarme ci conduceva di corsa al ricovero antiaereo. Un giorno, verso l’ora di pranzo, l’allarme risuonò almeno sei o sette volte tanto che invece di andare al vicino ricovero, scendemmo nella cantina del nostro fabbricato che a tutto poteva servire meno che a ripararci neppure da un semplice mortaretto. Il pensiero, quello mio e penso anche quello dei miei fratelli, andava però al piatto di pasta e legumi che avevamo lasciato fumante sul tavolo nella stanza da pranzo nell’attesa di essere divorato, ma per nostra madre la priorità era andare a rifugiarci. Finalmente nel primo pomeriggio gli allarmi cessarono e per me il ricordo di quel 19 luglio fu sempre legato oltre che all’episodio della pasta e legumi anche al fatto che quando dovetti uscire da casa, credo per acquistare qualcosa dal vicino fornaio, assistetti al passaggio di un tram proveniente da San Lorenzo dal quale esalava un pessimo odore di bruciato di qualcosa poco gradevole che non seppi definire e che per molto tempo mi rimase nelle narici. Credo che proprio quel bombardamento sia stato uno dei motivi, se non il principale, per il quale il 25 luglio, sempre del ’43, si verificò la “caduta del fascismo”. Se non ricordo male la notizia fu diramata per radio il giorno dopo ed il giorno dopo ancora, 27 luglio, mentre di primo mattino ero intento a fare colazione in cucina con mia madre vicino sentii rientrare a casa mio padre che sventolava con la mano la prima pagina del principale quotidiano di Roma annunciante a titoli cubitali il festoso evento. Io presi la palla al balzo e, senza capire esattamente il significato di quell’avvenimento, sgaiattolai da casa e m’intrufolai in uno dei numerosi cortei di persone che festeggiavano sbandierando il vessillo tricolore recante al centro lo stemma di casa Savoia e gridando “viva il re e abbasso il duce” mentre a forza di picconate smantellavano ogni sia pur piccolo simbolo del fascismo che fu. E pensare che io e mio fratello più grande dovemmo fare obbligatoriamente tutta la “carriera” di quell’epoca: figli della lupa a 4 anni, poi balilla, poi ancora balilla moschettiere e sempre in camicia nera. Ciò in quanto i nostri genitori erano due persone piuttosto timorose per le conseguenze che avremmo subito ove avessero rifiutato di farci partecipare. Un episodio di quel tempo fece comprendere a molti che i fascisti non fossero del tutto rassegnati né scomparsi. Me ne resi conto personalmente perché vi assistetti affacciato alla finestra di casa. Alcuni giorni dopo il 25 luglio due padri di famiglia inquilini nel fabbricato dove abitavamo anche noi, ingaggiarono uno scambio di revolverate contro un paio di fascisti rifugiatisi in una delle aule della facoltà d’ingegneria che confinava con la nostra strada. Per prima cosa non avevo mai saputo che quei due nostri coinquilini erano antifascisti e per di più in possesso di armi poi però mi domandai che cosa poteva significare quella piccola “battaglia”. Quando ad agosto del ’43 fu dichiarata Città Aperta a Roma si respirava una certa tranquillità. L’8 settembre di quell’anno fu firmato l’armistizio tra il governo italiano e l’esercito anglo-americano, ma il giorno dopo ci fu la fuga da Roma dei reali d’Italia. Tutti si dissero che la guerra era ormai terminata invece il 10 settembre ci furono aspri combattimenti, con morti e feriti tra i soldati e i civili italiani, i quali si opponevano all’ingresso delle truppe tedesche a Roma, sia a Porta S. Paolo, il più importante, che in altre località della periferia cittadina. Invece la guerra purtroppo continuava, era cambiato il nemico. A 66 anni di distanza da quel periodo ricordo, per fortuna, soltanto poche cose. Intanto a volte mi sono chiesto e mi chiedo ancora, ma…i miei tre fratelli che facevano? I due più piccoli rispettivamente di 6 e 9 anni probabilmente erano tenuti a bada da mamma mentre il più grande, 15 anni, dove s’era andato a cacciare? Il tredicenne, vale a dire io, si squagliò dal nido, sia pure ad intervalli e per brevi periodi. Mi ricordo un altro episodio verificatosi il 9 settembre, guarda un po’ il giorno del mio 13° compleanno. L’edificio nel quale abitavamo sin dal giorno della nascita di mio fratello più grande – 1928, confinava ad una distanza di pochi metri con un altro edificio abbastanza moderno per quell’epoca abitato quasi esclusivamente da gerarchi fascisti e loro sottoposti che aveva persino un nome: “palazzo Balbo” quadrunviro della marcia dei fascisti su Roma nel 1922. Ad un certo punto di quella giornata, se non ricordo male primo pomeriggio, sentimmo il rumore forte e continuo di numerosi colpi d’arma da fuoco. Prima che nostra madre ci facesse correre al riparo riuscimmo a capire che si trattava di spari provenienti dall’ultimo piano del vicino “palazzo balbo” e diretti verso la piazza antistante il Colosseo dove s’era fermato un piccolo carro armato leggero, italiano, dal quale un soldato, sempre italiano, si capiva dall’elmetto, rispondeva al fuoco con l’aiuto di un piccolo cannoncino. Anche questa battaglia non durò molto perché il carrista riuscì a centrare le finestre dalle quali erano stati sparati i colpi iniziali. Un passo indietro. Nostra madre ci fece sì riparare ma anziché scendere in cantina, considerata la rapidità dell’accaduto, si attaccò alle mani di noi quattro fratelli e ci fece fermare, lei compresa, sotto una specie di muro maestro che divideva un corridoio di casa dalla cucina solo che la finestra di questa cucina affacciava sul cortile interno del nostro fabbricato confinante con altri di questi tra i quali anche “palazzo balbo” e quindi abbiamo potuto veder sfrecciare numerosi proiettili che non riuscendo inizialmente a centrare le finestre in questione colpivano quelle di un altro edificio. Insomma l’importante fu che, centrato l’obiettivo, gli spari terminarono con l’esito finale delle “due finestre colpevoli” distrutte rimanendo tali per molti anni. Venimmo a sapere dopo qualche tempo che quasi tutti gli abitanti di quel palazzo se la diedero a gambe lasciando campo libero a gran parte dei cittadini confinanti i quali trafugarono tutto il possibile. La severità o il timore, dei nostri genitori c’impedì di partecipare. Quelli dopo il 10 settembre furono giorni tremendi sia per l’occupazione nazista e le malefatte dei fascisti sia per le numerose questioni legate alla sopravvivenza. Tutto cominciò a migliorare dal giorno della liberazione di Roma da parte degli anglo-americani ma io non sono mai riuscito a dimenticare quel periodo dell’estate del ’43.

Descriviti in 3 aggettivi.

Forse un po’ pignolo (retaggio del mio lavoro ultratrentennale presso studi notarili), paziente e, perché no, a volte anche rompiscatole.

Il tuo motto?

Cercare di dare meno fastidio al prossimo.

Che messaggio vorresti lanciare ai giovani di oggi? 

Non seguite il mio esempio ma studiate e istruitevi al massimo.
Ringraziamo Aldo per averci gentilmente rilasciato questa intervista.

Saluti Alba e Nicolò

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